Dall’Italia dei movimenti al Kurdistan in lotta: staffetta a Suruç

3 / 11 / 2014

Partire da Kobane per essere Kobane era il titolo di quella che per noi era una preliminare dichiarazione di intenti, innanzitutto contro le semplificazioni, ma anche contro chi usa l’alterita’ come alibi dell’immobilismo,  costruisce distanze culturali, laddove quelle geografiche risultano inefficaci. Noi a Kobane siamo arrivati solo con una carta di identità e con tutti i privilegi della cittadinanza differenziale europea.

Lo diciamo nel modo più chiaro possibile noi siamo partiti per Kobane praticando cooperazione politica con chi nel Rojava costruisce spazi di autonomia ed autogoverno basati su una cittadinanza aperta che supera le linee di razza, religione e sesso, prima di tutto qui in Italia. Questo per noi vuol dire essere Kobane. Non siamo noi a praticare solidarietà internazionale con quella regione mediorientale, anzi, chi resiste a Kobane tiene aperto uno spazio di vita ed un progetto politico per chiunque combatte il fascismo, i fondamentalismi, pratica autonomia e libertà.

Gli attivisti politici del Kurdistan turco, della Turchia, di tutto il mondo hanno iniziato ad utilizzare questo spazio lasciato aperto dai compagni curdi sperimentando il modo migliore per assumere complessivamente il senso di quella resistenza. Essere Kobane appunto.

E’ quello che ad esempio  è accaduto questo primo Novembre, quando gli attivisti di tutto il mondo hanno accolto l’invito a scendere in piazza a fianco della lotta curda.

Non sappiamo quanto questo spazio riuscirà a rimanere aperto. Quello che certamente sappiamo  è che non possiamo limitarci a fare il tifo per loro.  In gioco c’è l’esistenza di una importantissima esperienza di autogoverno e di autonomia che sta subendo il feroce attacco da parte di Isis mentre la comunità internazionale sta quasi del tutto a guardare, ritenendo cinicamente il Rojava  assolutamente sacrificabile ai fini dell’economia della guerra globale.

Di contro, le mobilitazioni internazionali di questi giorni e soprattutto l’efficace resistenza degli uomini e le donne di Kobane, hanno contribuito a spezzare il monolite su cui poggiano le relazioni di potere che indirizzano il conflitto in medioriente. Hanno aperto una piccola fessura che la nostra attenzione costante  dovrebbe contribuire a non far sparire sotto le macerie della guerra, capendo piuttosto  come allargarne il perimetro fino a  diventare  voragine.

Le proteste contro il governo turco a Roma, Milano e Venezia (dove si sono sanzionati i consolati turchi) si collocano  per questo sincronicamente nella scia delle manifestazioni in Turchia ed in Europa contro l’intento di Erdogan di utilizzare strumentalmente l’attacco di ISIS per farla finita una volta per tutte con l’eresia curda .

Non c’è dubbio infatti che per  rompere l’assedio di Kobane, da qui, è necessario attaccare efficacemente il  governo turco ed i suoi interessi economici globali, imponendo alla comunità internazionale una pressione costante su chi, direttamente o indirettamente, supporta i fascisti dell’ISIS.

Bisogna farlo innanzitutto ribadendo che Kobane non è in alcun modo sacrificabile su uno scacchiere strategico internazionale e che anzi l’esperienza del Rojava  si colloca tra i livelli più profondi ed intensi della ricerca politica agita nella carne delle lotte e si interroga, come lo zapatismo, sulla relazione tra territorio, autogoverno, forme di vita e di cittadinanza.

La prima delegazione a Suruc, nel Kurdistan turco, a pochi chilometri da Kobane, città gemella del Kurdistan siriano, in quella zona strategica dove il confine diventa violento strumento differenziale di controllo (poroso per gli jihadisti, dura da passare per i curdi, anche per i civili in fuga dalle bande dell’Isis) per noi e’ stata una pionieristica esperienza che oggi vogliamo  mettere a valore in un meccanismo organizzato di mutualismo e cooperazione tra compagne e compagni italiani e curdi. Così ci siamo immaginati una staffetta che si protragga nei mesi che contribuisca a costruire ponti tra le lotte.

Essere Kobane vuol dire inoltre interrogarsi sugli strumenti di boicottaggio più efficaci contro la guerra globale.

Kobane ci insegna anzitutto che la terza via, quella che si apre a fatica tra coalizioni occidentali e islamisti, si pratica in maniera conflittuale e non difendendo ottusamente un pacifismo disarmato ed inefficace. Kobane ci insegna, e i Nobet su questo sono un esempio eclatante, di come si possa organizzare una intera società sulla resistenza e sulla cooperazione. Ognuno secondo il proprio ruolo e le le proprie specifiche attitudini. Eppure tutti preposta ti per rispondere agli attacchi di Isis e dell’ esercito turco.
Questa messa a resistere dell’intero territorio,che è una dinamica che in parte abbiamo imparato a conoscere sui nostri territori dinanzi a importanti battaglie in difesa dei beni comuni, e’  una delle cose più interessanti da acquisire e assimilare.

Elementi intramontabili delle esperienze partigiane si mescolano su quel confine a pratiche e linguaggi che sono familiari a tutte le giovani generazioni del pianeta.  Una contaminazione che ha a che fare profondamene anche con il fronte jihadista che innegabilmente si nutre voracemente della spazialità e della coattività della società globale dei social e della comunicazione permanente, grazie alla quale ha costruito  ad esempio l’archetipo del terrore tramite la circolazione virale delle esecuzioni.

 .Ebbene  la nostra proposta e’ muoverci lungo queste direttrici, senza cedere alle facili fascinazioni.

 Ci interessa una relazione incarnata, vera che permetta la costruzione di canali di comunicazione e informazione  stabili al fine di costruire una narrazione in grado di scavalcare completamente quella tossica  del  main stream.

Ma sopratutto quello che ci interessa più di ogni altra cosa è essere Kobane,  fare di  Kobane il simbolo di ogni resistenza  fuori e dentro i i nostri territori. 

FONTE: globalproject.info

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