I bambini di Kobane

14 / 11 / 2014

Abbandoniamo per una mattina la battaglia di Kobane per andare a vedere le vittime di questa guerra, i feriti,  gli sfollati, i bambini. Ci rechiamo al campo “Rojava” appena fuori Suruç, 109 tende gestite per conto dell’amministrazione della Rojava in completa autonomia da uno straordinario gruppo di 45 volontarie, che provvedono a tutto, dal cibo alla sicurezza, alla pulizia. Tutte donne. L’atmosfera al campo è come quella che si respira al villaggio di Mehser, dove dormiamo, ma qui le difficoltà sono evidenti. Incontriamo Meral Ozdemin, una delle tre responsabili che ci accompagna tra le tende.

Ci colpisce subito l’assenza di cancelli d’entrata al campo (abituati come siamo ai nostri campi “d’accoglienza”) e Meral ci spiega che le 1100 persone (560 bambini, 400 donne e 250 uomini) ospitate nel campo possono entrare ed uscire liberamente. Nei campi del governo invece è diverso, quelli sono campi chiusi, la gente non ci vuole stare e li hanno messi in piedi solo per fare “bella figura”. Immediatamente veniamo circondati da decine di bambini che ci abbracciano, ci tirano, vogliono farsi fare delle foto, ci scippano di una merendina al cioccolato…

Allo scoppio della guerra, ci spiega Meral, il governo turco non aveva alcun campo allestito.

In una delle prime tende ci sono i banchi, dei giochi, una lavagna: è una scuola. Una ragazza tenta di contenere una squadra di indisciplinati ragazzini. “Stanno facendo lezione in curdo, la loro lingua. Nei campi del governo fanno lezione in turco, hanno sempre voluto cancellare la lingua curda ed ora ci provano così. Anche Assad ha fatto la stessa cosa con i curdi siriani, ma così è ancora più assurdo perché la gente che scappa da Kobane non conosce una parola di turco: oltre al curdo parla solo siriano”. Ci sembra ovvio, ma non ci viene da sorridere. La battaglia per i “diritti culturali” è una cosa seria, qui.

Mentre camminiamo tra le tende sentiamo concitazione: è arrivato un camion, tre operai si arrampicano su un palo della luce. “Finalmente ci rimettono l’elettricità”. Quello della corrente elettrica è uno dei principali problemi del campo, non ce n’è abbastanza e soprattutto non ci sono abbastanza soldi per pagarla. La corrente è importante in particolare per far funzionare il riscaldamento dentro le tende. Di notte qui fa freddo davvero. Mancano anche medicine, le scorte non sono sufficienti ed i bambini iniziano ad ammalarsi. Manca cibo, latte soprattutto e mancano coperte. Il governo turco non ha mandato nessun aiuto e Meral sta chiedendo a tutte le organizzazioni e reti sociali che conosce di mandare soldi e materiali prima che inizi l’inverno.

“Non vogliamo più vivere così. Prima avevamo problemi sia con i turchi che con i siriani, adesso ci è piombata addosso l’ISIS. Vogliamo che questa guerra finisca, non vogliamo più combattere e morire. Vogliamo ricostruire Kobane, ma sarà un lavoro lungo e difficile, la città è completamente distrutta”. Lo sappiamo bene, ogni giorno ci avviciniamo di più e finora non siamo riusciti a scorgere  un solo edificio intatto.

Ci salutiamo, promettendo che anche dai nostri Centri Sociali italiani partirà una campagna di raccolta fondi per i 5 campi autogestiti di Suruç.

FONTE: globalproject.info

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