Kobane. Due giorni di combattimenti intensi

La notte tra domenica e lunedì, mentre a poche centinaia di metri i fuochi del villaggio di Meheser non smettevano di incitare con canti e cori i guerriglieri di Kobane, si capiva bene che la battaglia era particolarmente feroce. Spari, esplosioni, raffiche di mitra, colpi di mortaio e di cannone non davano tregua.

Alle 2:30 la terra ha tremato: “airstrikes!” ci urlano tutti. Sono i bombardamenti della coalizione internazionale contro le postazioni o i mezzi blindati dello Stato Islamico nella città.

Poco prima era uscito via twitter il comunicato ufficiale delle Unità di Difesa Popolare (YPG) che da due mesi resistono nella difesa di Kobane: è stato liberato il quartiere di Kaniya Kurdan e la moschea di Reshad, precedentemente occupata dall’IS. Nel retrocedere le truppe del califfato hanno fatto saltare la moschea e numerosi negozi ed edifici.

I combattimenti sono proseguiti anche per tutta la giornata di lunedì, con altri due attacchi aerei nel tardo pomeriggio.  Il villaggio sembra immobile, tutti nel piazzale davanti alla moschea o sui tetti mentre binocoli passano di mano in mano. Molti sono sfollati di Kobane oppure hanno un figlio, una figlia, un parente che combatte in città.

Un padre ci mostra con orgoglio il suo telefonino, sullo schermo si illumina la foto di un giovane vestito di verde con un Kalashnikov in mano, suo figlio. Un altro padre sta poco più avanti, da solo, è seduto per terra e piange: anche il suo di figlio sta combattendo.

Ma in generale l’umore della gente è alto. L’YPG sta attaccando e tutti, ma proprio tutti, confermano l’arretramento dell’Isis. Lo confermano anche alla sede del partito DBP, nella sede della municipalità e lo dicono anche al villaggio.

Parliamo con un uomo, è riuscito a telefonare a Kobane, e ci spiega come la guerriglia curda sia riuscita a uscire dalla zona ovest della città e avanzare da sud chiudendo la strada da e per Raqqa.

Se questo fosse vero, le “bande” (“gangs”come le chiamano qui) dello stato Islamico resterebbero senza rifornimenti dalla loro roccaforte.

Tentiamo di raggiungere una collina vicina, da dove si vede tutta la città e dove si è radunata la stampa internazionale, ma la strada ci viene chiusa da soldati turchi con il fucile spianato e dai mezzi blindati. “Motivi di sicurezza”, la collina è stata sgomberata, non si passa.

Di carri turchi ce ne sono a decine, militarizzano il confine e non fanno passare nessuno, proprio in queste ore quando ci sarebbe bisogno più che mai di un corridoio umanitario per evacuare feriti e civili, per portare aiuto alla città.

Proprio questo confine, che nei mesi scorsi è stato così facilmente attraversabile dagli uomini e dai mezzi del “califfato” e davanti al quale il 6 novembre scorso è morta la giovane attivista Kader Ortakaya, uccisa dalla polizia mentre manifestava contro questa indecente chiusura.

Questo confine dovrebbe spalancarsi per permettere alla gente della Rojava di tornare in possesso della propria città, delle proprie case, della propria vita. Raccogliamo da terra un candelotto sparato proprio durante quella manifestazione e non possiamo fare a meno di notare che i carri-armati hanno il cannone puntato verso di noi, verso i villaggi di confine del Kurdistan turco e voltano le spalle all’Isis.

Un altro segnale di come il governo Erdogan desideri risolvere la “questione curda”, quello straordinario esperimento di democrazia radicale, di autogoverno solidale, di “confederalismo democratico” che è la Rojava.

Martedì l’epicentro della battaglia si è spostato fuori dalla città, nei villaggi di Minaz e Gire Iza a ovest della città, segno che l’YPG sta iniziando a controllare anche l’esterno, ampliando il suo raggio d’azione. Alle 4 del pomeriggio arriva la notizia (confermata anche dall’agenzia di stampa locale) di tre  colpi di mortaio, provenienti dai quartieri di Kobane ancora in mano all’Isis, che hanno centrato la zona di Tilseìr, a ridosso del confine turco.

Un’azione particolarmente odiosa perché è una zona dove sono accampati molti uomini, donne e bambini scappati dalla città che non sono ancora riusciti a passare il confine. Il bilancio sarà di due morti e 6 feriti, tutti civili.

Ci avviciniamo scartando i blocchi dell’esercito, riusciamo a vedere Kobane ancora più da vicino: è una città fantasma, demolita. Case e palazzi sono distrutti, masticati dai colpi di artiglieria. Ci sarà presto bisogno di tutto, soprattutto delle infrastrutture indispensabili alla vita: non c’è più corrente elettrica, non c’è più acqua, non c’è cibo, sul vecchio ospedale trasformato in quartier generale dagli uomini del califfato sventola ancora la bandiera nera.

“È solo questione di tempo” ci dice uno dei responsabili del villaggio, “gli uomini e donne della guerriglia curda stanno vincendo, finalmente combattiamo ad armi pari, tra sette, dieci giorni al massimo ci saremo ripresi Kobane”. Non sappiamo se siano previsioni azzardate, se siano solo desideri, ma noi speriamo che abbia ragione.

FONTE: globalproject.info

Uncategorized